Legge di Stabilità 2016 e politiche per i patronati

aprile 16, 2016

Nuovi segnali di crisi del modello di welfare di garanzia di fruibilità dei servizi

di Pasquale Acconcia – Torna la Legge di stabilità e tornano i tagli per i patronati sotto forma di riduzione del relativo stanziamento di Bilancio del Ministero del Lavoro. Tornano i tagli, tornano le proteste che “inducono” il Parlamento a ridimensionarli, magari a fronte di ulteriori misure di razionalizzazione, come avvenuto con la scorsa manovra (leggi: Legge di stabilità 2015 e patronati. Tagli e nuovi equilibri fra patrocinio e funzioni di servizio) e come riproposto con la legge 2016 licenziata parallelamente alla emanazione (proprio negli stessi giorni) dei cinque decreti applicativi della riforma del 2015 che configurano una vera e propria manovra con un’ampia apertura di nuovi orizzonti operativi e finanziari per gli istituti di patronato: quelli più qualificati, almeno secondo le nuove regole fissate dalla stessa “Stabilità 2015”.

PatronatiNell’impianto originario il sistema dei patronati, rigidamente legato per molti decenni al ruolo delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, valorizzava in maniera pressoché esclusiva la funzione di patrocinio in confronto con gli enti previdenziali a fronte di un meccanismo di finanziamento proveniente dalle stesse categorie tutelate con il “filtro” di garanzia del controllo ministeriale. E’ un punto da tenere sempre presente nel parlare, rispetto a detto impianto, di gratuità dei servizi resi all’inizio dietro corrispettivo proveniente dalla stessa platea dei loro beneficiari. La valenza di questo iniziale collegamento (per soggetti e per oggetto poiché il grosso delle pratiche trattate si muoveva nell’ambito delle prestazioni previdenziali) si è poi affievolita e vari governi si sono impegnati per ridimensionare il finanziamento con una battaglia di logoramento (meno contributi erogati, oltretutto, con una complessa rendicontazione, pagamento di anticipi ecc. che può rendere necessario il ricorso al credito) di cui riesce difficile comprendere fino in fondo la motivazione organizzativa e tecnico finanziaria.

Per la risposta mediatica non c’è da andar lontano, però.

Basta leggere alcuni commenti anche sul web che accomunano i patronati alla “casta”, lo studio di Amato sul finanziamento diretto e indiretto del sindacato, riandare con la memoria a un referendum bocciato dalla Corte costituzionale, ricordare le prese di posizione nella prima “Leopolda”, la crescente deriva antipolitica per comprendere come certe prese di posizioni, anche legislative, scontino una diffidenza di fondo di alcuni settori rispetto a enti che sarebbero una longa manus del sindacato e dei partiti politici (ancor oggi, con riferimento alla vicenda testé conclusa si legge che “per colpire i sindacati Renzi stanga i cittadini”).

Sono aspetti che travalicano i profili strettamente organizzativi e finanziari di nostro interesse in questa sede ma devono essere tenuti a mente – a fronte di vicende che potrebbero apparire stucchevoli se non toccassero gli interessi di migliaia di lavoratori e milioni di utenti – come segnali della trasformazione che il welfare sta vivendo – per i contenuti delle tutele e per i profili istituzionali e strutturale – attraverso vari canali: attraverso, soprattutto, provvedimenti e scelte (apparentemente) contingenti che hanno un andamento ondivago frutto di un incessante andirivieni fra soluzioni anche antitetiche che sembrano sollecitare, sullo sfondo, un superamento, fra l’altro, delle tradizionali categorie di previdenza/assistenza anche in termini strutturali per tener conto della mutata composizione della clientela dei patronati.

Pertanto, sembra interessante riflettere sulla vicenda patronati come un ulteriore angolo visuale per cogliere i movimenti spesso contraddittori (quasi uno smottamento, a volte) del sistema di welfare lungo il suo faticoso percorso per rifondarsi su nuove basi e strategie. Una riflessione sommaria a fronte di un dato di fatto che appare incontrovertibile a monte nel senso che l’andamento “ondivago” seppur inevitabile in un sistema di accentuati equilibri politici, finisce per essere deleterio sul piano gestionale poiché non consente agli operatori del mercato, pubblico o privato, enti o singole persone di programmare, di progettare, impostare politiche di investimento onerose sollecitate da questa o quella riforma: e la vicenda dei patronati ne appare significativo esempio.

L’enfasi sulle conseguenze dei tagli sulla platea dei “bisognosi” mette in ombra le motivazioni alla base delle strategie per i patronati

Nell’anzidetta prospettiva di scenario può lasciare perplessi il fatto che osservazioni e critiche sulle specifiche scelte legislative focalizzino l’attenzione sull’impossibilità per i patronati di soddisfare, con i tagli, i bisogni di assistenza di cittadini e lavoratori con foschi scenari e chiamata alle armi di cittadini e lavoratori che, letti isolatamente, rischiano reazioni di segno opposto volte a sollecitare un maggior impegno degli enti previdenziali come se il servizio non di patrocinio in senso stretto dovesse essere fornito da loro all’insegna dell'”altrimenti che ci stano a fare?”.


assistenza cafLa battaglia, cioè, è sembrata giocarsi tutta dal “fondo” del percorso operativo: con attenzione alla disagiata condizione degli utenti finali e ai loro bisogni di assistenza
(a tutto tondo, ormai e non solo di patrocinio) che crescono in modo esponenziale, a fronte dell’ampliarsi e complicarsi dell’area dei servizi che chiamano in causa il patronato sotto la pressione di un’utenza sempre più variegata per numero e per ampiezza di richieste ben al di là dell’originario patrocinio classico, offerto a titolo “gratuito” nella accezione della gratuità prima accennata, messa in discussione dall’ingresso nel sistema di soggetti che lavoratori non sono (o non lo sono in questa veste). E’ un po’ la vicenda, a ben guardare, dell’assistenza sociale in forma (e onere) previdenziale che ha caratterizzato l’intero sistema di welfare. Il discorso, cioè, è concentrato sugli effetti delle manovre piuttosto che sui “motori” delle stesse, e sembra esaurito tutto con l’alleanza fra patronati e utenti nelle pressanti richieste “allo Stato” perché non faccia mancare risorse ai primi a vantaggio dei secondi: quasi come se il tutto fosse una concessione del sovrano, pena l’impoverimento dei clienti e la disoccupazione degli operatori; con la “povertà” sempre più frequentemente parametro privilegiato del nuovo Welfare pubblico.

Non è così nel caso di specie per gli aspetti gestionali e strutturali; non è un confronto sulla povertà e la gratuità dei servizi – un po’ quello che accade per le spese di giustizia e il sostegno ai più deboli nel far valere le loro ragioni, come può agevolmente verificarsi ribaltando la prospettiva e partendo da un diverso angolo visuale alla ricerca del “perché” accadono certe trasformazioni; o meglio alla ricerca delle radici primarie delle trasformazioni stesse, con una ipotesi di lavoro ben chiara: è in atto una deriva dello Stato sociale dello scorso secolo con al centro della attenzione, per quanto qui interessa, l’abbandono tendenziale delle aree di diretta fornitura di servizi da parte dello Stato nelle sue varie accezioni.

Il ritiro della P.A. dal “servizio sul campo” puntando sull’utente protagonista: un percorso fra insostenibilità gestionale del modello del ‘900 e spinta allo sviluppo basato sulla I.T.

L’abbandono si accompagna (e in certa misura è reso necessario) da una crescita esponenziale delle esigenze di servizi per l’accesso alle provvidenze, frutto dell’arricchimento delle tutela sociale, della crescente complessità delle normative di riferimento con un mix assistenziale/previdenziale (il trionfo dei requisiti con la beffa della evasione), dell’irrompere sullo scenario del welfare di sempre nuove tipologie di clienti e utenti di etnia, cultura e lingua diverse. E’ frutto, soprattutto, di una scelta strategica – caldeggiata da politici, opinionisti e governi – volta a potenziare l’informatizzazione delle procedure “al servizio di clienti e utenti” e posta a fondamento di contestuale riduzione degli organici e presenze sul territorio degli enti a fronte della crescente disponibilità di servizi “fai da te”.

Si tratta di una scelta ben definita e irreversibile ed è strano, per questo, come raramente si consideri – nel discutere di patronati partendo dal fondo della questione – il parallelo riproporsi ad ogni “stabilità” del taglio delle risorse finanziarie a disposizione degli enti previdenziali per spese strumentali; per spese di personale, quindi, che si considerano definitivamente ridimensionate. Non è, infatti, o non è solo un momento della lotta agli sprechi ma è il pendant dell’obiettivo dichiarato – in campo previdenziale ma anche per la generalità dei servizi pubblici e privati – del principio secondo il quale gli utenti possono e debbono gestire le pratiche da soli, accedendo a sportelli virtuali capaci di dare informazioni e guidare nello sbrigare per intero le pratiche. Una rivoluzione tecnologica, affiancata da una riforma delle procedure amministrative e dei processi informatici volta a collocare – con il magico PIN – l’utente stesso all'”interno” del sistema INPS, ad esempio, grazie alla crescente trasparenza di procedure e archivi.

Un impianto tecnologico/procedurale eccellente ma non esaustivo

Ma è un obiettivo e un risultato ambizioso che, realizzato per l’impianto operativo è tecnologico, è a livello di servizi tendenziale per percentuali di utenza significative ma non esaustive.

In primo luogo, infatti, il successo della operazione postula a monte un sistema di norme e regole amministrative consolidate, diverso dall’attuale ricco di cantieri sempre aperti che richiedono, anche per la gestione dell’input dimestichezza con materie in cui errori anche banali possono compromettere i diritti. Ci troviamo di fronte, cioè, a un sistema che si presenta: – coi contenuti continuamente modificati nei vari comparti; – arricchito di vari livelli interpretativi e da sempre nuove prospettive di frammentati servizi; – investito dall’ondata di sempre nuove clientele di assicurati ma anche di assistiti, di cittadini ma anche di lavoratori e utenti di diversa nazionalità. Da ciò, insomma, una grande e oggettiva complessità delle pratiche: basti pensare alla crescente dimensione assistenziali (con il reddito e le sue accezioni al centro del sistema in contiguità con quello fiscale) nella fruizione di benefici e servizi di stampo previdenziale che arricchiscono la gestione delle pratiche di sempre nuovi momenti informativi e strumentali. All’essere lavoratore, ad esempio, occorre spesso aggiungere la prova di un basso reddito “povero” e/o di essere coniugato con tanti figli ecc., con un crescendo di contenuti e percorsi della richiesta di servizio già difficilmente conoscibili nei contenuti dispositivi.

Ci si trova di fronte a un intrico di difficoltà che pochi – anche fra i soggetti abili nel colloquio telematico e nella conoscenza delle norme e regole – sono in condizione di affrontare in autonomia pur con la migliore qualità dei servizi di assistenza in un dialogo a distanza fra uffici e utenti chiamati, i secondi a “fare” le pratiche, i primi a controllarne la regolarità; il tutto con un convitato di pietra, il mitico “sistema”.

processo-telematicoE ciò senza nulla togliere all’importanza strategica e pratica (per gli utenti) di iniziative come quella del 730 precompilato o come quella del calcolo della pensione che valorizzano un diretto colloquio fra uffici e utenti, promosso e governato dai primi.

Non solo, ma a queste difficoltà che si incontrano nell’affrontare il merito delle questioni si deve aggiungere il fatto che tutti concordano sulla dimensione del “digital divide”: un analfabetismo il cui superamento troverebbe a detta di molti un unico ostacolo nella mancanza di una rete a velocità adeguata alle crescenti esigenze del Paese. Si sollecita una banda sempre più larga e si lascia nell’ombra la reale sostanza del problema – almeno per quanto riguarda i servizi sociali, pubblici e non – che emerge nella sua drammaticità qualora si pretenda di gestire tutte le componenti dei servizi (di comunicazione, di gestione pratica, di verifica e valutazione dei risultati in rete) tramite il diretto colloquio degli utenti con il sistema produttivo. Nello specifico del Welfare è stata forte la sollecitazione politica sugli enti che hanno risposto in modo eccellente rendendo concretai tale possibilità di gestione, si tratti di una richiesta di informazione o di una vera e propria domanda di pensione ecc. Il processo è andato a buon fine (con tutti gli inevitabili inconvenienti risolvibili solo in progress), tanto che si punta a ridimensionare i propri sportelli tradizionali nel quadro di una più ampia riorganizzazione imposta dal contenimento delle spese.

E’ andato a buon fine ma, l’esperienza conferma come non basti trattandosi di servizi che devono garantire il prodotto (non un prodotto) a milioni di utenti e non ci si può contentare, quindi, di percentuali di successo anche altissime che lascino fuori fette significative della clientela. Rischia di creare disagi e gravi inconvenienti, quindi, il fatto che si vada riducendo la rete di posti dove la gente possa andare a chiedere, presentare domande, protestare, essere confortati perché no ecc. Problema particolarmente acuto – lo ribadiamo – rispetto al portafoglio clienti di INPS, ricco di persone spesso menomate e/o ad anzianità crescente, di persone – sempre più – per le quali è difficile già comprendere e utilizzare la lingua parlata. E’ su questa platea che occorre immaginare l’impatto di quel digital divide che nella sostanza riguarda una impressionante percentuale di persone che sono del tutto impreparate sul piano della formazione, della informazione, prima ancora di quello dell’addestramento all’uso. E lo saranno sempre, per l’accesso di continue leve di anziani, disabili, migranti ecc., al quale si somma la crescente complicazione dei meccanismi di sicurezza a fronte delle crescenti potenzialità di colloquio del sistema per la vera e pro ecc. pria gestione delle pratiche. Infatti, alla possibilità di gestire effettivamente pratiche complesse (dal riscuotere, al pagare e tasse, al chiedere la pensione ecc.) si accompagna, come è doveroso, tutta una serie di meccanismi che, a garanzia degli stessi utenti, sono rivolti ad accertare identità, confermare operazioni, gestire la privacy

Resta immanente insomma la questione di coloro che mutuando un termine del processo penale (l’aggressione a un anziano, ad esempio, è aggravata, come pena, dalla minorata resistenza della vittima) restano soggetti dalla minorata capacità di gestire. E che problema c’è! si sostiene; ci sono i patronati che da antagonisti degli enti diventano partner (quasi pezzi dell’organizzazione, direi) per sostenere questa sterminata massa di utenti, le cui percentuali di disagiati (per la gestione nel merito prima ancora che per l’informatica) sono destinate a restare immutate per decenni sempre che non si semplifichi drasticamente il sistema normativo e regolamentare.

IT, opportunità per un nuovo sistema di rapporti triangolari tra Inps, utenti e patronati

E’ vero, che il problema c’è (e torniamo così, all’inizio del discorso, alla lettura dal basso della questione, accettando non come inconveniente transeunte ma come componente essenziale del sistema di welfare proprio la presenza dei patronati in un assetto triangolare del sistema con vari protagonisti): l’INPS che gestisce l’intero e, quale obiettivo gestionale primario, mette l’utente in condizione di trattare la pratica da solo; l’utente, che provvede direttamente nella rete esaurendo l’intero ciclo di pratica; gli intermediari; i patronati primariamente (al servizio degli utenti “verso” l’INPS e non viceversa come tendenzialmente può ipotizzarsi) ai quali “si consente” di sostituirsi all’utente entrando nel sistema alle condizioni dettate da INPS. Da qui in poi un percorso di trasformazione da indiretto a diretto del collegamento degli “assistenti” col “dominus” del rapporto.

E’ una triangolazione frequente nel mercato dei servizi che, nel caso nostro, si caratterizza per la progressiva immedesimazione tecnico-operativa con INPS dei patronati forti della loro riconosciuta funzione sociale con la conclusione di un percorso ormai standard che: – parte dalla nascita di servizi a difesa dell’utenti o contribuente, – passa per il consolidamento di una funzione consulenziale verso l’utente trasparente per l’amministrazione, – prosegue con la crescita continua di intensità dei rapporti dell’amministrazione con gli intermediari mai responsabili di cattiva gestione delle pratiche, – approda alla creazione di un saldo rapporto diretto fra intermediari e enti, garantendo agli utenti una sorta di visto pesante.

Il ruolo dei patronati nel modello in divenire di nuovo welfare

E’ certo difficile esprimere giudizi al riguardo; difficile e inutile per una vicenda che va comunque per la sua strada lungo la quale l’insieme di tutti questi rapporti troverà certo un nuovo equilibrio.

Resta, però, schizofrenico nel caso nostro, il fatto che si continui a polemizzare a fronte di un meccanismo basato ormai su due percorsi di riduzione dei spesa pubblica (sugli enti, sui patronati) che rischiano il caos poiché è certo che l’organizzazione del sistema previdenziale, l “an” stesso dei servizi e prestazioni può reggere solo con i patronati pezzi della sua organizzazione ovvero ricostruendo il ruolo degli uffici territoriali degli enti previdenziali con restituzione dei patronati alla mission originaria.

Più che un’alternativa, ovviamente, la nostra è una provocazione come se, in altro campo, si volesse riportare l’intero della sanità pubblica nel SSN ricostruendone il modello originario E’ una provocazione tanto che già nel passato prossimo a fronte della valanga abbattutasi sui patronati per la gestione on line dei servizi si è corso subito ai ripari riconoscendo un compenso ai patronati per servizi di “minuteria” (servizi a punteggio 0).

WelfareE’ una provocazione che riproponiamo affinché si esca dai dibattiti sulla superfluità ora dell’uno ora dell’altro, dal parlare di “caste”, dal disegnare scenari caotici (eppur reali) di perdite di posti di lavoro e di assalto agli sportelli. Tutte cose vere queste ultime ma che non dovrebbero distrarre da un ragionamento complessivo che trovi un punto di equilibrio partendo dalla chiara consapevolezza che si tratta di meccanismi messi in moto dalla esigenza strategica (da discutere, e eventualmente da accettare a questo livello) di riformare la P.A., di ridimensionare la spesa pubblica, di spingere sulla “rete” come veicolo di sviluppo ecc.

Il tutto andando a confluire nella deriva neoliberista del welfare pubblico: deriva all’italiana, ovviamente, come all’italiana – e lo riteniamo un pregio – il sistema di sicurezza sociale dello scorso secolo, “compiuto” appunto all’italiana con la salvaguardia, pur in altra forma, di quei valori che sono stati alla base della nascita e consolidamento del patrocinio sociale.

Si esca dai dibattiti e si prenda atto della circostanza che a fronte di questa scelta ne derivano necessità oggettive di cittadini e lavoratori di trovare punti di riferimento per “gestirsi” in questo nuovo mondo. E’ un’esigenza permanente, che tocca tutti i settori, pubblici e privati – sarebbe interessante un censimento di quanti servizi normalmente sono svolti con la richiamata triangolazione – con la presenza di soggetti che operano, danno lavoro, rendono i servizi di cui le persone hanno bisogno; Li rendano gratuitamente per quanto meglio esprima la valenza sociale della prestazione resa o pagamento, con tariffe predeterminate per impegno operativo e, se si creda, per categorie.

Occorre, insomma, costruire nel quadro della riforma generale (e non per colpi di mano) del welfare, tenendo tutti assieme i vari pezzi del mosaico a partire da scelte chiare e sostenibili sul complesso dei servizi pubblici, di quelli del welfare in particolare. Altrimenti, nel caso di specie, ragionando separatamente (con rituali risvegli a ogni finanziaria) sul versante organizzativo del welfare e sul ruolo dei patronati, questi ultimi continueranno ad essere scambiati per enti inutili pur crescendo – di fatto e di diritto – per ruolo, presenza organizzativa, per diffuso apprezzamento della clientela, di là dalle battaglie politiche.

Lo stato dell’arte: restano interrogativi sulla consapevolezza di Governo e Parlamento sui problemi a monte dei tagli

Quali che possano e debbano essere le conclusioni alle quali pervenire, alla prova dei fatti non è certo che da parte di Governo e Parlamento ci sia piena consapevolezza della complessità del tema e della esigenza di trattarlotenendo conto di tutti i valori e interessi in gioco, con la massima attenzione e profondità di analisi.

Già a fine 2014, a fronte del pericolo di paralisi del sistema – immanente sull’intera vicenda – e volendo comunque coniugare il ridimensionato finanziamento “pubblico” con la garanzia ai patronati meglio adeguati alla funzione sociale (non a qualunque soggetto così denominato insomma), si è progettata e codificata una manovra per alzare il tiro dei requisiti di qualità degli istituti (con previsioni che lasciavano intravedere l’avvio di un percorso di riordino di una situazione del sistema patronati esposto a forti rischi di implosione, come accenna in un commento alla manovra e allargare oltre misura la sfera dei servizi da essi erogabili, in alcuni caso anche a pagamento. All’epoca si è trattato di un annuncio fatto forse per tacitare le proteste tanto che durante tutto il 2015 nonostante le sollecitazioni dei patronati non è stato dato seguito a dette previsioni legislative. Solo a novembre, sempre con il chiaro intento di tacitare in qualche modo le proteste e concretizzare alternative di sopravvivenza, il Governo ha licenziato cinque decreto ministeriali che in modo senz’altro approssimativo – quasi “arronzati” – definiscono le aree di nuovi servizi e relative modalità di attivazione. Si va così dalla possibilità di far pagare servizi originariamente a punteggio 0 con un tetto massimo di 26 euro a titolo di rimborso spese (una delle espressioni utilizzate dai cinque decreti per identificare i pagamenti al patronato accanto a “contributo” e “tariffa”) a una elencazione minuziosa di nuovi servizio che possono essere resi dai patronati a enti pubblici e privati ed a privati come attività e come aree di intervento: attività di sostegno, informative, di consulenza, di supporto, di servizio e di assistenza nello svolgimento delle pratiche amministrative in favore di soggetti privati e pubblici in materia di: a) previdenza e assistenza sociale; b) diritto del lavoro; c) sanità; d) diritto di famiglia e delle successioni; e) diritto civile e legislazione fiscale; f)risparmio; g) tutela e sicurezza sul lavoro. Un elenco ricco (mancano solo servizi di ristorazione) che il Governo si preoccupa di delimitare escludendo le attività che già sono finanziate in base alla legge originaria e precisando che le attività rientranti nell’ambito delle professioni dell’art. 2229 cod.civ. Possono essere svolte esclusivamente dagli iscritti negli appositi albi o elenchi. I decreti confermano, inoltre, disciplinandole in modo estremamente sintetico, le competenze indicate dalla “Stabilità 2015” per attività di informazione, consulenza e assistenza in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro nei confronti della pubblica amministrazione e dei datori di lavoro privati nonché uno dei decreti disciplina. Si conferma, disciplinandola, altresì, la competenza in materia di avviamento al lavoro nonché di formazione ad esso collegata.

Abbiamo richiamato in modo affastellato le varie previsioni per rendere graficamente l’affannosità dell’intervento ministeriale, parco di dettagli per la disciplina di punti che già a prima vista pongono problemi delicati di integrazione e raccordo fra vari istituti e comparti normativi. Non a caso destano non poche preoccupazioni negli operatori proprio a fronte della incompletezza del quadro di riferimento regolamentare che rischia di aggravare situazioni da “Far West” nel sistema patronati come accennato da Sorgi su quotidiano.net.

I rischi di involuzione che toccano il modello di nuovo Stato sociale da costruire

Resta alto, il livello di preoccupazione a cospetto della prateria sterminata di servizi possibili con ampio spazio per la crescita di quelli a pagamento e con il rischio di ricollocazione dei patronati fra i fornitori di servizi con “scoloritura” di quelli di patrocinio.

Queste ed altre preoccupazioni sono state già riproposte da più parti; da responsabili di patronato soprattutto che, come nel caso di Morena Piccinini (leggi, in merito, l’intervista a un sito svedese e, più ampiamente rassegna.it) che sottolinea tutta la inconsistenza dei regolamenti accennando, altresì, a criticità macroscopiche, rischi di interferenze con altri settori si servizi, l’assenza di indirizzi chiari per quanto riguarda la gestione di tutte le nuove attività a fronte della certosina disciplina di precedenti normative in materia.

Né, per inciso, può trascurarsi il rischio – anch’esso evidenziato dai primi commenti – che lungo questa deriva il sistema patronati entri in rotta di collisione con l’assetto di altre aree di fornitori di servizi o di aree contigue del mondo sindacale, come risulta dalla lettura delle aree di servizio delle principali organizzazioni sindacali.

La preoccupazione – per l’incertezza delle scelte piuttosto che per il loro contenuto specifico – resta forte poiché proprio questi ultimi spunti potrebbero essere letti come volontà di sostituire al finanziamento pubblico forme di provento alternative con costo a carico, in definitiva, proprio degli utenti finali che pagherebbero i nuovi servizi finora in parte erogati da altri fornitori, ed anche quelli di classica matrice previdenziale/assistenziale, finora garantiti dai patronati a punteggio zero e/o dagli stessi enti previdenziali. Sembrerebbe confermato, così, uno scenario in cui gli utenti si gestiscono le proprie pratiche da soli o si pagano la intermediazione dei patronati (e non solo?) con tutte le garanzie proprio, con costo sostenibile grazie all’ampliamento della sfera di servizi e ad un contributo pubblico modulato sui livelli di “povertà” degli interessati.

Nuovi patronati holding di raggruppamenti di ‘imprese’ di servizio? Forse. Nuove forme di fiscalità mediata sicuramente

Scenari certo futuribili, a fronte dei quali, salendo di livello nella analisi, ci sembra che in gioco non sia l'” an” della sopravvivenza dei patronati (pezzo essenziale del sistema previdenziale nei termini prima descritti) ma il “come” a fronte, fra l’altro, della attribuzione di nuovi servizi sostitutivi della Pubblica amministrazione con una insidiosa deriva, sul piano organizzativo, verso meccanismi di raggruppamento di “imprese” (tante quante sono le nuove aree) con holding capogruppo (il patronato) che, se non governata, finirebbe per scolorire le funzioni di consulenza e patrocinio secondo la ferrea legge di Gresham: la” Moneta (la funzione, nella specie) cattiva scaccia la buona”.

Sul piano organizzativo, inoltre, per restare al collaudato campo dei servizi di welfare, si profila il consolidarsi di un corpo operativo e gestionale che si pone fra Stato e cittadini con un essenziale ruolo di servizio “dalla parte del cittadino” nel senso che la sua operatività resta fuori dalla organizzazione diretta dello Stato stesso e comunque regolata da meccanismi che si avvicinano molto a quelli di mercato, con tutte le opportunità di artifici già oggi presenti in termini ad esempio di diversificazione dei canali di call center: gratuiti da telefono fisso, non da telefonia mobile.

Si arriva, così, al punto nodale e cioè al fatto che anche da questo versante appare in gioco, in definitiva, il modello di welfare costruito in un secolo, quasi che il continuo erodere la sfera della “gratuità” (direttamente o toccandone le “fonti”) sia il prodromo di una privatizzazione del welfare “per colpi di mano” con un disordinato ritorno al ristretto campo dell’assistenza pubblica classica e tutto il resto affidato alla previdenza privata e di categoria, anche con la quale il patronato dovrà comunque confrontarsi. Non a caso si parla ormai di Welfare di primo, secondo, terzo livello (sul punto, leggi un rapporto specifico).

Nel Paese, infine, a fronte della riduzione del carico fiscale “diretto”, si consolida, quale che sia il livello di gratuità dei servizi reso “compatibile” la crescita dei costi delle tutele e dei servizi: per servizi non essenziali ma anche per quelli di base e per la fruizione degli stessi come accade sul versante giudiziario ove sta tramontando l’idea di una tutela senza spese per i lavoratori comunque abbienti. Per il welfare più spese giudiziarie, insomma, più spese per i contenziosi amministrativi e già per fruire in prima istanza dei servizi (magari anche per pagare il contributo per le casalinghe ci si rivolge in definitiva al consulente). Il tutto accanto a più spese per la regolarità fiscale, per stare a posto con la sicurezza della casa, con l’amministrazione degli immobili, fino a quelle per partecipare a concorsi pubblici sempre più simili a una tariffa.

Fonte: Legge di Stabilità 2016 e politiche per i patronati
(www.StudioCataldi.it)